Un altro Gesù??? #2 - I fratelli, l'odio-amore, Maria maltrattata a Cana
Non ho resistito molto, ad essere sinceri. Le pagine da 18 a 23 del libro che sto commentando (vedasi post "Un altro Gesù???"), spaziano dall'affermazione dell'autore per cui Gesù sarebbe la negazione sia dei rapporti famigliari che del matrimonio stesso (con tanto di esempi e spiegazioni personalissime), per terminare con l'argomento di pagina 23 in cui Maria viene "trattata male" da Gesù alle famosissime nozze di Cana. Insomma, da sentire veramente i brividi.
Ma vediamo subito gli argomenti di cui ci occuperemo, per evitare di far perder tempo a chi ritenga di non essere interessato a codesto post:
1) i "Fratelli" di Gesù trovano una ulteriore conferma in Giovanni 7,1-5 "Nemmeno i suoi fratelli, infatti, credevano in lui"
2) "Se qualcuno viene da me e non ODIA suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo" (Lc 14,26)
3) Maria "maltrattata" a Cana dal figlio Gesù [ma con sicurezza, invece, lei dice perentoria ai servitori: «Fate tutto quel che vi dirà» (Gv 2,5)]
Primo punto. Secondo l'autore, il passo Gv 7,1-5 è una ulteriore conferma che:
a] i Fratelli di Gesù sono proprio i suoi fratelli carnali
b] i Fratelli di Gesù non credono in lui
c] Gesù è ancora una volta in totale contrasto con i famigliari più stretti.
Or dunque, vediamo il testo giovanneo: Gv 7,1-5
Per spiegare bene quale sia l'interpretazione corretta del brano, dovremmo conoscere bene l'aramaico ed il greco che si parlavano al tempo di Gesù e comunque in almeno tutto il primo secolo dopo la sua nascita. Infatti è ormai condiviso da gran parte degli esegeti del Nuovo Testamento, che vi debba essere stato uno "strato" aramaico a seguito del quale furono poi interpretati, trascritti e rivisti sino alla redazione finale (su ciò ho già detto nel precedente primo post che concordo con Lamparelli) i Vangeli canonici (lasciamo a parte il discorso degli apocrifi, giudicati "più recenti").
Poiché non ci basterebbe forse qualche decennio per apprendere l'aramaico antico e il greco koinè (a meno che nella vita non avessimo altro da fare), personalmente ho scelto di farmi aiutare da Josè Miguel Garcia, teologo e biblista della scuola madrilena, specializzato in esegesi del Nuovo Testamento e profondo conoscitore delle lingue antiche (compreso l'aramaico). Come dite? Come mi ha aiutato? Ma è semplice: col suo libro "La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli" (Biblioteca Universale Rizzoli) - 2005.
9,50 € tra i meglio spesi delle centinaia di rispettabilissimi testi in mio umile possesso. Consigliatissimo!
Che dice Garcia? Presupponendo uno strato aramaico, prende il testo greco dei sinottici e di Giovanni e li traduce in aramaico, trovando così la spiegazione per vari passi "oscuri", ossia non ben comprensibili, presenti nei Vangeli, come ad esempio il "famoso" segreto messianico nel Vangelo secondo Marco, 'scoperto' da W. Wrede tra la fine dell'800 e i primi '900 spiegato da questo fantasioso teologo Luterano, appresso al quale (intendo il segreto messianico) c'è cascata pari pari con tutti i piedi anche la nostra amatissima Chiesa Cattolica, prendendo uno svarione forse tra i più grandi della storia (ma questo, sia ben inteso, è il parere di Nessuno - appellativo con il quale, per chi si fosse perso il primo post, intendo il sottoscritto).
Ma torniamo a bomba al nostro argomento. Vediamo, in sintesi, cosa ci dice Garcia (non metto il corsivo, ma è tutta farina del suo sacco - di mio non c'è alcunché di fondamentale (tranne qualche nota tra parentesi). Lo scrivo in rosso, dai che è più "maestrale".
L'intero brano è disseminato di anomalie: intanto è strano che si alluda ai discepoli della Giudea se in realtà essi sono proprio in Galilea, dove Gesù tra l'altro ha operato la maggior parte dei miracoli. Poi, il dialogo con questi "fratelli" è a dir poco sorprendente: al v.5 leggiamo che essi non credono in Gesù, ma appena prima lasciano intendere che sanno che ha operato miracoli (anch'essi sono in Galilea, se non sono stati direttamente presenti di sicuro l'avranno sentito dire) e gli consigliano di andare a Gerusalemme per approfittare dell'occasione della festa delle Capanne per manifestare le sue opere. La contraddizione è talmente elevata che alcuni studiosi hanno interpretato la proposta di questi fratelli come ambizione, per beneficiare a loro volta anch'essi del riconoscimento pubblico di Gesù (dunque del loro fratello maggiore... o del loro maestro?). Perché mai avrebbero insistito affinché si recasse a Gerusalemme? (forse per ereditare la bottega di Giuseppe, visto che tutto sarebbe toccato al 'primogenito'?). E poi, ancora, Gesù aveva già operato dei miracoli a Gerusalemme (Gv 2,23; 5,1-9). Ciò nonostante la proposta di codesti fratelli sembra ignorare tali fatti, il che continua ad essere molto strano. E com'è possibile che Gesù abbia agito di nascosto, se ogni volta correvano gridando a gran voce di essere stati sanati, liberati da demoni etc. etc.? Anche Gesù ha un comportamento alquanto strano: dice che non sarebbe andato alla festa, ma appena i fratelli se ne vanno, ci và anche lui, ma di nascosto (e da solo, con tutti i pericoli che nel tragitto si potevano incontrare, compreso l'attraversamento della Samaria, territorio ostile ai giudei e disseminato di tagliagole che assaltavano i viandanti).
La maggior parte degli esegeti moderni sostiene la tarda redazione del Vangelo di Giovanni. Contrariamente a tale opinione altri studiosi identificano l'aramaico come lingua originale (anche) di questo Vangelo. Si possono identificare a sostegno di quest'ultima ipotesi influssi non solamente derivanti dalla mentalità semitica dell'autore, ma anche alla correlazione con un testo scritto in aramaico. A tal proposito, M. Herranz (sempre della Scuola esegetica di Madrid) chiarisce molti degli enigmi racchiusi in questo Vangelo ricorrendo al sostrato aramaico. Questo studioso ci presenta la seguente ricostruzione:
3 I suoi fratelli gli dissero: "Perdona/permetti già da ora, quando vai dalla Galilea alla Giudea, che i tuoi veri discepoli diano a conoscere le opere che tu fai.
4 Nessuno infatti agisce in segreto, se vuole venire riconosciuto pubblicamente. Se fai tali cose, manifestati al mondo".
5 Neppure i suoi fratelli infatti erano degni di fede per lui.
Secondo questo originale aramaico, coloro i quali chiedono a Gesù di divulgare i suoi miracoli sono i suoi veri discepoli, cioè i cosiddetti "Dodici". Giovanni però ci dice che sono pronunciate dai "fratelli" di Gesù. ecco quindi di nuovo i due termini: "fratelli" e "discepoli" che troviamo già in altri passi del Vangelo giovanneo per designare le stesse persone, cioè gli Apostoli di Gesù: uomini da Lui scelti come collaboratori del suo ministero, ovvero la predicazione della buona novella. La percezione della realtà e delle aspettative dei Dodici diverge in varie occasioni sia nei sinottici che in Giovanni: gli uomini pensano da uomini (un esempio per tutti: "Vade retro, Satana" - dirà Gesù a Pietro in Marco 8,33 [Satana è inteso come "avversario", colui il quale ostacola i piani di Dio. Qui Gesù sta invitando Pietro a tornare dietro di lui, nella posizione del discepolo che segue i passi del maestro, anziché provare a precederlo, pretendendo di insegnare al proprio maestro]). (Gesù pensa infatti al compimento della propria missione, secondo il piano Trinitario). Dunque, anche qui i Dodici sono chiamati "fratelli", intendendo i collaboratori più stretti di Gesù, rispetto agli altri discepoli, che hanno scelto di seguire Gesù per varie ragioni (i Dodici, ripeto, sono stati scelti dal Maestro - esattamente il contrario di ciò che normalmente avveniva: il Rabbì/Rabbunì veniva scelto dai discepoli). (Non dimentichiamo inoltre che i Dodici erano sempre con Gesù, specialmente in Galilea. L'ipotesi che siano i misteriosi fratelli carnali ad esprimersi così e i discepoli [i Dodici] fossero a Gerusalemme sarebbe veramente azzardata, se non addirittura fuori luogo).
Secondo punto. Gesù invita ad odiare i propri parenti più stretti ed amare e seguire Lui.
Il tentativo di denigrazione di Gesù è talmente puerile che non meriterebbe neppure di essere commentato. Non spenderò pertanto molte energie, affaticando il lettore e per citare il Maestro: "Chi vuol capire, capisca!".
Questo rinnegamento dei famigliari (diciamo pure ODIO, come afferma Luca) è un passaggio che si legge sia in Luca 14,26 che in Matteo 10,37.
Ma in Matteo è più blando, meno "estremistico" del passaggio Lucano. Vediamoli nella traduzione dal greco del Poppi (Sinossi quadriforme dei quattro Vangeli - greco-italiano).
Mt 10,37: "Chi vuol bene al padre o alla madre più di me non è degno di me; e chi vuol bene al figlio e alla figlia più di me non è degno di me".
Lc 14,26: "Se uno viene a me e non odia il suo stesso padre e la madre e la moglie e i figlioli e i fratelli e le sorelle, e ancora persino la sua stessa vita, non può essere mio discepolo".
Ora, non voglio dare la più semplice delle spiegazioni, che potrebbe essere: a chi sta rivolgendosi Gesù? Si sta rivolgendo a chiunque intenda abbracciare la sequela Christi o si sta rivolgendo in modo specifico ai Dodici, che dovranno proseguire la missione di evangelizzare le Nazioni e pertanto dovranno essere ben convinti di ciò che faranno? E nel caso in cui si stia rivolgendo a qualsiasi suo seguace (ricordiamo che non a tutti dice "seguimi", quindi per qualcuno bastava sopportare la propria croce, senza rinunciare a tutto - beni e affetti) non intende più probabilmente dire "per seguire la mia via, che porta al Regno dei Cieli, occorre liberarsi dei falsi idoli, dei legami terreni, siano essi materiali che affettivi, se questi distraessero dal raggiungimento dell'obiettivo finale"? Congetture! Ipotesi! Interpretazioni! OK, ok, ho capito...allora parliamo solo di critica testuale/analisi del testo.
Matteo usa un comparativo di maggioranza per indicare "la quantità" di bene da riservare ai parenti e a Lui. Presupponendo (ricordiamo che i discorsi di Gesù avevano una probabile provenienza scritta aramaica) che Matteo (ovvero il redattore finale di tale Vangelo) avesse a disposizione il testo aramaico del passo in questione, egli conosceva molto bene l'aramaico (la lingua parlata in Palestina al tempo di Gesù) e presumibilmente non ha avuto difficoltà nel tradurre in greco il passo da tale lingua originaria. Ora, per buona pace di noi poveri mortali che conosciamo solo poche parole in aramaico avendole lette in alcuni Vangeli e buona pace anche di Lucarelli, in aramaico NON CI SONO comparativi (ne di maggioranza, ne di minoranza, ne di uguaglianza). Ohibò! Allora come si faceva a rendere palese che per seguire/amare qualcuno in modo da dedicare la propria vita a quella missione, si doveva rinunciare un pochino ad altri beni, siano essi materiali che affettivi?
In una lingua semitica e polisemica e composta da consonanti affiancate, senza vere e proprie vocali, che molto probabilmente si usava molto per parlare ma poco per scrivere, per dire "amare di meno" si era obbligati ad utilizzare l'estremo opposto all'amare, ovvero l'odiare. Dunque, per dire che si doveva amare più Gesù (ovvero abbracciare quella missione) piuttosto che i beni materiali (affetti, beni etc.) non restava che parlare di amore per l'uno e odio per l'altro - compresa la propria vita.
Invece, il redattore "finale" del Vangelo secondo Matteo, doveva conoscere molto bene l'aramaico (lo prova il fatto che "Matteo" conosce molto bene anche usi e costumi giudaici - anche se inciampa in un caso sui Sadducei, ma questa è un'altra storia) e conosceva anche abbastanza bene il greco. Motivo per cui, traduce correttamente la pericope utilizzando il comparativo.
E Luca? Beh, o Luca non era così raffinato nello scrivere in greco il suo testo evangelico oppure, da profondo conoscitore rispettoso della sequela che lui stesso aveva intrapreso, si è limitato a tradurre in greco un testo aramaico precedente (Matteo aramaico? Fonte "Q"?) che qui traspare molto tangibile. Luca appartiene al cristianesimo di seconda generazione. Forse nativo di Antiochia (Siria) e di buona cultura greco-romana (quindi non semitica) si dice fosse medico e avesse seguito S. Paolo (che lo cita espressamente) e pur non avendo conosciuto personalmente Gesù, entrò in contatto con alcuni discepoli (visto che dopo il Vangelo secondo Luca, scrisse i cosiddetti Atti degli Apostoli, che completano l'opera lucana).
Luca scrive probabilmente intorno agli anni '80 e non oltre l'85 d.C. (molto prima secondo Garcia, per il quale l'età della scrittura dei Vangeli è da anticipare di parecchio, a partire dalla prima decina di anni dalla passione-morte-resurrezione di Gesù). Luca fondamentalmente ripropone il materiale presente in Marco e Matteo ed essendo non solo un grande teologo ma anche uno storico, compie sicuramente approfondite ricerche e rimette mano al materiale evangelico disponibile "nel suo tempo".
Il suo Vangelo è più fedele a quello di Marco rispetto a Matteo e riporta oltre a brani della triplice tradizione (comuni cioè a Marco, Matteo e Luca) e brani della duplice tradizione (Marco e Luca o Matteo e Luca) brani di semplice tradizione (propri cioè solo di Luca, come il famosissimo racconto dei due di Emmaus [Luca 24,13-35] che esplode in dettaglio la semplice pericope di Marco 16,12) e discorsi presi dalla cosiddetta fonte "Q" (Quelle = fonte, in tedesco).
Dunque Luca, trovandosi probabilmente tra le mani lo scritto aramaico, vuoi per rispetto, vuoi per incomprensione della lingua semitica, traduce con amore e odio ciò che gli appare "amore" e "odio", non conoscendo la particolarità della lingua aramaica, come del resto la stessa ebraica, mancanti appunto dei comparativi. Se avremo modo di interagire in un post sul "segreto messianico" cui più sopra avevo accennato, vedremo come le incomprensioni della lingua aramaica abbiano generato delle assurde traduzioni in greco (ne parleremo in specie relativamente agli esorcismi di Gesù).
Terzo punto. Maria maltratta da Gesù alle nozze di Cana.
τί ἐμοὶ καὶ σοί, γύναι; (traslitterato: "Ti emoi kai soi, gunai?") - trad. CEI 1974 “Che ho da fare con te, o donna”?; CEI 2008 “Donna, che vuoi da me?”; Poppi: "Che (importa) a me e a te, donna?".
Alle nozze di Cana, Maria dice a Gesù "Non hanno più vino". Gesù sembra zittire la madre, con la frase sopra riportata, aggiungendo che la Sua ora non è ancora venuta (spiegazione comune: Gesù NON voleva ancora rivelarsi, quindi non era il momento di operare un "primo" miracolo che non avrebbe magnificato la gloria del Padre).
Ma è proprio così? Curiosamente, se si presuppone un testo aramaico dal quale il redattore "finale" di Giovanni (che scrivendo tra il 100 e il 120, probabilmente conosceva meglio il greco dell'aramaico) abbia attinto e tradotto non proprio correttamente il brano, si possono evincere alcuni aspetti (cui accenniamo solamente, per motivi di spazio):
a) il miracolo di Cana non fu probabilmente il primo, ma "uno dei primi" (riferimento che Josè Miguel Garcia fa a fra Luis de Leòn, uno dei migliori scritturisti spagnoli della seconda metà del XVI secolo il quale nel prologo al suo libro "La sposa perfetta", relativamente alla somma perfezione del matrimonio, dice: "Cristo, nostro bene, fiore della verginità e sommo appassionato della verginità e della pulizia, è invitato a un matrimonio, vi partecipa, mangia e lo santifica, non soltanto con la maestà della sua presenza, ma con uno dei suoi primi miracoli". Per completezza aggiungiamo che Fra Luis era in possesso di un dominio non comune delle tre lingue bibliche: ebraico, aramaico e greco).
b) non hanno più vino o, piuttosto, "non avranno più vino"? Il verbo "avere" in aramaico NON viene reso con un verbo, bensì mediante la cosiddetta particella verbale, che è atemporale, seguita dal suffisso personale introdotto dalla preposizione "per" (sto citando Garcia, ovviamente). Dunque la particella in questione oltre che il presente, potrebbe anche indicare una azione futura.
Tenuto infatti conto che le nozze in Palestina, al tempo di Gesù, duravano una settimana, è quanto meno improbabile che il vino fosse improvvisamente e subito (il primo giorno) venuto a mancare. Da ciò sarebbe sensato pensare che Maria possa aver detto a Gesù "Non avranno più vino". Che non fosse poi il primo giorno delle nozze, si potrebbe poi dedurre dal fatto che se il vino fosse venuto a mancare "progressivamente" ma, diciamo, "tranquillamente" forse ci sarebbe stato il tempo per un secondo approvvigionamento. Potremmo dire che, in ogni caso, presente o futuro prossimo, il vino era o stava per mancare entro breve tempo (troppo breve anche per un approvvigionamento, utilizzando i mezzi di trasporto e le possibilità di quel tempo).
Ma il lettore mi potrebbe dire: "Ti emoi kai soi;" (traducendo stile Poppi: che importa a me e a te?). Più che giusto, andiamo al punto di corsa, allora.
Quel tipo di frase, effettivamente significa ciò che esprime, in greco. Fermo restando che la traduzione potrebbe benissimo essere: "Che c'è tra me e te, donna?" e sì, tra la volontà di Maria e la volontà di Gesù ci sarebbe, non dimentichiamo, la volontà del Padre (cui Gesù ha sempre obbedito). Quindi Gesù avrebbe potuto semplicemente intendere: "Madre, tra me e te, c'è la volontà del Padre che io devo innanzitutto rispettare!". Mi piacerebbe che questa fosse stata l'intenzione, ma io vi ricordo, sono Nessuno, quindi Nessuno ha detto niente. Non entro nel merito del fatto che "Donna" non era usato in senso dispregiativo, ma era un normale epiteto usato anche nei riguardi di una parente, sia pur strettissima. Magari rivolgendosi a un "ish", Gesù potrebbe averlo nominato "Figlio d'uomo" (il figlio di un uomo, nel normale intendere giudeo, significava uomo. Lasciamo stare il significato attribuito a Gesù quando usa su di sé l'epiteto e il libro di Daniele, altrimenti facciamo notte).
Il problema, come ci spiega il buon Miguel Garcia, è che la frase in greco ha tradotto male un aramaico da cui deriva molto probabilmente. La riprova ne è il fatto che, tranquillamente, Maria dice subito ai servitori "Fate quello che vi dirà!", quindi è ben conscia che il Figlio non l'abbia sgridata, anzi: è sicura che Gesù le obbedirà (o meglio, la accontenterà). E questo con buona pace di Lamparelli, che vedeva già in Gesù dodicenne un piccolo figlio dei fiori ribelle.
La corretta frase per Garcia, sarebbe la seguente: "Non per me, bensì per te, donna, è giunta opportuna la mia ora".
Cosa abbiamo per supportare codesta traduzione di un precedente aramaico?
1) il miracolo di Cana non fu probabilmente il primo miracolo (vedasi più sopra) - Maria è quindi certa del fatto che il Figlio non si esimerà dall'aiutare gli sposi (sarebbe stato gravissima la mancanza del vino, a tal punto da segnare la fine della festa)
2) Gesù non può aver trattato male Maria (ricordiamo che in tutti i Vangeli è sempre difensore della donna, sia essa adultera, prostituta o comunque peccatrice) ne sembrare scorbutico, antisociale e avverso al matrimonio come vorrebbe farci intendere il buon Lamparelli. Infatti Maria, avverte subito i servitori di fare tutto ciò che Gesù dirà loro di fare.
Meditate gente, meditate!

Troppo bello!
RispondiEliminaGrazie. Spero che l'analisi riportata sia di stimolo per una lettura attenta della Parola di Dio, che è molto meno misteriosa di quanto possa sembrare. La parola di Gesù è "dabar", cioè parola - azione, perché così è la Parola di Dio. E innanzi a Lui, si pieghino tutte le ginocchia, come in Cielo, così in terra. Amen.
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